Gli imprenditori europei, quando guidano un’azienda, si pongono molte domande di carattere economico, gestionale, finanziario ed ora anche sostenibile. La necessità di un reporting di sostenibilità è arrivata, ed è più vera che mai. La storia del sustainability reporting in Europa non ha più di otto anni, ma è stata caratterizzata da forti cambiamenti. È passato da essere un report secondario con poca valenza per le aziende ad essere un documento necessario e fondamentale per comunicare con trasparenza le proprie azioni ambientali, sociali e di governance.
Non solo fondamentale, ma dal 2025 sarà anche obbligatorio. Lo sviluppo reportistico è stato segnato da un grande cambiamento che all’apparenza può sembrare banale, ma che in realtà ha portato un forte significato. Nell’aprile del 2021, la Commissione Europea ha portato avanti la proposta per una “Corporate Sustainability Reporting Directive” distaccandosi dalla terminologia precedentemente adottata nel 2014 della “Non-Financial Reporting Directive”. Nel testo della prima direttiva che ho menzionato si riporta molto chiaramente la distinzione netta tra reporting di sostenibilità, quello finanziario e quello di management, ponendo il report di sostenibilità come trasversale sugli altri report aziendali, quindi mettendolo alla pari importanza, se non più elevata, degli altri due. La valenza non è solo normativa ma anche operativa. Questa legge ha obbligato le aziende ad avere un approccio più cosciente sulle tematiche legate alla sostenibilità ed ha introdotto un concetto di cui si sta molto parlando: la doppia materialità. La valutazione della materialità è un processo che serve all’azienda per identificare i rischi, gli impatti e le opportunità che vanno pubblicate sul report di sostenibilità ed in questo caso ha due dimensioni, finanziaria e di impatto. Prima dell’avvento della CSRD e degli standard EFRAG queste due erano separate. Ora si devono entrambe valutare quando si redige un report di sostenibilità, gravando considerevolmente sulle dinamiche interne delle aziende che dovranno adattare e formare i loro dipendenti per rispondere a questi shock del sistema.
Questa direttiva è in vigore per le grandi aziende europee e dovranno rilasciare il primo report di sostenibilità seguendo gli standards EFRAG entro il 2025, gli stati membri avranno fino a luglio 2024 per naturalizzarla nel loro sistema normativo. La capacità di assorbimento di uno shock del genere non è semplice, ma possono essere gestite con più facilità da una grande azienda, nel 2026 la normativa verrà estesa alle Micro, Piccole e Medie Imprese, ma le richieste si stanno già manifestando. Il motivo risiede nella necessità delle grandi imprese, secondo le direttive della CSRD, di riportare tutte le informazioni della catena di valore nel report consolidato al livello gruppo. Queste informazioni oltre l’operatività interna delle aziende perché toccano i fornitori che molto spesso sono tante diverse PMI. Quindi i dati che vengono richiesti dalla CSRD alle grandi aziende non sono solo richiesti ad esse ma anche alla rete dei fornitori, tra cui possiamo trovare le micro, piccole e medie imprese.
Ciò comporta una richiesta alle capacità di raccolta informazioni delle PMI non indifferente. Delle capacità che non possono essere messe a confronto con quelle di una multinazionale. La CSRD allargherà i requisiti di reporting anche alle microaziende e PMI nel 2026, ma la transizione verso l’elaborazione di informazioni che sono utili per la redazione del report di sostenibilità sta venendo richiesta già da ora. Richieste che provengono, non dalla normativa, ma dalle multinazionali che sono già state colpite dalla normativa e a cui servono informazioni su tutta la loro catena di valore che comprende una rete estesa di micro, piccole e medie imprese. La vera domanda è riposta nel come questa rete di aziende si dovrà adattare e quali saranno i costi relativi a questo cambiamento. Alla base ci sarà un aumento della raccolta dei dati associati ad azioni aziendali legate alla sostenibilità che prima non venivano considerate importanti, ora verranno prese in considerazione. Una maggiore raccolta dati vorrà dire un aumento del personale e soprattutto della formazione sui temi legati alla sostenibilità all’interno delle aziende. Tutto questo si ricollega alla mancanza delle cosiddette “green skills” nel mercato globale. La grande sfida non sarà tanto quante persone si potranno formare ma l’accessibilità e la disponibilità economica che avranno le PMI per far fronte a questi cambiamenti.
La soluzione? Una chiave di lettura potrebbe essere la digitalizzazione e l’uso dell’intelligenza artificiale, allenando dei modelli di AI a temi legati con il reporting di sostenibilità in maniera da fornire uno strumento scalabile e per facilitare la transizione ad una low-carbon economy delle micro, piccole e medie imprese.