Di Lorena Radici da “MondoInternazionale” 

Se ne parla davvero poco, eppure l’inquinamento acustico marino è cresciuto di 10 volte negli ultimi decenni. L’impatto più significativo sugli ecosistemi è quello dell’uomo: le attività umane, infatti, sono diventate sempre più rumorose, a scapito di molte specie animali.

Tuttavia, a causa della – o, almeno in questo caso potremmo dire “grazie alla”- pandemia da Covid-19, il 2020 ha presentato un’occasione unica a un gruppo di scienziati che, approfittando dello stop di industrie e trasporti, ha deciso di mappare il panorama sonoro del mare prima, dopo e durante il lockdown.

L’importanza del suono per gli animali marini

Molti animali marini, vivendo in un habitat dove la visibilità è limitata a causa della poca luce, hanno sviluppato un udito che permette loro di utilizzare l’eco-localizzazione e quindi di orientarsi. Questa tecnica viene denominata biosonarperché funziona esattamente come un sonar (sistema di ricerca subacquea basato sull’emissione di suoni). L’udito, per questi animali, è di conseguenza molto più importante della vista.

Nell’habitat marino, gli animali utilizzano il suono sia in modo attivo e quindi per comunicare, accoppiarsi, cercare cibo, distrarre le prede e i predatori, che in modo passivo per percepire la presenza dei predatori, orientarsi nello spazio e scovare altri individui della stessa specie. Inoltre, i mammiferi marini sono in grado di comunicare a decine di chilometri di distanza.

È facile comprendere, dunque, quanto l’udito per questi animali sia di vitale importanza.

Le principali fonti di inquinamento acustico marino

L’inquinamento acustico marino è causato dall’immissione di rumori in quantità eccessiva rispetto a quanto l’ambiente in questione sia in grado di sopportare. Vari studi dimostrano che i rumori provocati dall’uomo siano quelli che provocano più effetti negativi sui vari organismi marini. In particolare, le principali fonti di inquinamento marino sono rappresentate dall’attività di ricerca di combustibili fossili (come gas e petrolio), dai sonar utilizzati per usi militari o civili, dalla costruzione di edifici sulla costa, dall’attività di pesca, dagli impianti eolici e infine dal traffico marittimo (che è in costante aumento, in particolare nel Mar Mediterraneo).

Gli impatti sulla fauna marina

Gli impatti di tutte queste attività possono essere diversi a seconda del tipo di rumore prodotto, di dove esso è localizzato e della sua durata. I rumori provocati dai sonar, ad esempio, possono causare dei danni diretti (come una sordità temporanea o permanente). Tuttavia, anche i rumori più deboli non sono da sottovalutare perché, seppur in modo non immediato e meno evidente, anch’essi possono avere effetti negativi importanti, soprattutto se la loro durata è lunga e/o continua. Inoltre, data l’importanza del suono per gli animali marini e la capacità di propagazione del suono nel loro habitat, l’inquinamento acustico nel mare può avere conseguenze non solo sul singolo individuo, ma sull’intera popolazione marina.

In generale, i principali effetti negativi dell’inquinamento acustico sulla fauna marina si possono riassumere in: perdita dell’udito, mascheramento (ovvero impossibilità da parte degli animali di ascoltare importanti segnali animali e ambientali), effetti fisiologici non uditivi (come l’aumento della frequenza cardiaca) e vari effetti comportamentali come l’abbandono del territorio.

2020: anno del silenzio degli oceani

Se per quasi tutti il 2020 è stato un anno negativo a causa dell’inizio della pandemia e del relativo lockdown, alcuni scienziati hanno visto in quest’anno un’occasione più unica che rara. Infatti, grazie al blocco di molte attività produttive e del trasporto marittimo, gli oceani e i mari sono diventati meno congestionati e, di conseguenza, molto più silenziosi. Un’opportunità difficile da ripetersi per lo studio dell’impatto dell’inquinamento acustico sull’ecosistema marino. La conoscenza umana di questo fenomeno è molto limitata in quanto è complicato trovare le condizioni ideali per fare ricerca, ma queste condizioni si sono presentate proprio grazie alla diffusione del Covid-19 in tutto il mondo.

L’idea dei ricercatori è stata quella di servirsi di 200 idrofoni oceanici (dei microfoni subacquei che registrano i suoni sottomarini) posizionati in diverse aree del mondo e di combinare, successivamente, altri strumenti di controllo della fauna marina come il tracciamento, per cercare di comprendere quale impatto abbia il rumore causato dalle attività umane sulle specie marine.

Nel 2015 una comunità di esperti aveva lanciato l’International Quiet Ocean Experiment Science Plan (IQOE), un programma creato per la promozione dello studio del paesaggio sonoro sottomarino. In quell’occasione, l’anno del “silenzio” degli oceani previsto era il 2022, ma dato l’inaspettato scoppio della pandemia, l’organizzazione ha pensato di anticipare il tutto al 2020. L’occasione creata dall’emergenza sanitaria, infatti, è un’occasione molto rara, e ce ne sono state poche altre nella storia moderna. Un blocco simile si verificò forse l’11 settembre 2001, a seguito dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, ma si trattò di uno stop più breve. In ogni caso, nonostante la sua brevità, il blocco del traffico aereo e marittimo permise di studiare gli effetti delle scie di condensazione sui modelli climatici e i livelli di stress nelle balene. In quell’occasione si scoprì infatti che i rumori derivanti dall’attività umana provocano stress cronico ad alcuni animali marini.

Già lo scorso luglio, la Guardia Costiera aveva affermato che, in soli due mesi di chiusura, si è registrato un miglioramento della trasparenza delle acque. Non possiamo, dunque, che aspettarci un miglioramento anche per quanto riguarda l’inquinamento acustico marino. Ciò che, ad oggi, sappiamo con certezza è che molte specie animali, grazie al blocco causato dal lockdown, hanno ricominciato a far sentire la propria voce.

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